L'abitudine aggiusta le cose

 

L’abitudine aggiusta le cose

Alvaro era finito a lavorare alla camera mortuaria quasi per caso. Il responsabile della sua sezione un giorno lo aveva chiamato e gli aveva proposto quel nuovo incarico. Avrebbe dovuto preparare e vestire i morti prima di metterli nella cassa. “Beh cosa c’è di strano?” Gli aveva detto il capo. “Nessuno ti romperà le scatole come succede adesso che devi tutto il giorno correre di qua e di là a recuperare i rifiuti speciali dell’ospedale. È un’attività dignitosa e da un certo punto di vista nobile. Ci vuole sensibilità e certo un po’ di pelo sullo stomaco ma a te queste due cose non mancano. Dai Alvaro vedrai che non te ne pentirai” Poi gli aveva fatto il segno sfregando il pollice e l’indice come a dire che c’era anche qualcosa da guadagnare. Alvaro non aveva avuto il tempo di ribattere e il suo capo aveva applicato sbrigativamente il metodo del silenzio/assenso. Così con un po’ d’apprensione Alvaro aveva cominciato il suo nuovo lavoro.

I parenti gli portavano i vestiti e le scarpe e Alvaro glieli faceva indossare. Certe volte non era facile poiché i corpi erano già freddi, gli arti non si piegavano per infilargli la giacca e i pantaloni. La camicia era più facile, il tessuto leggero ben si adattava ad essere tirata dall’una e dall’altra parte. La cravatta si faceva il nodo prima ed era un giochetto girarla sotto il collo della camicia. Le scarpe poi… se erano strette nessuno se ne sarebbe lamentato.

Giù nella camera mortuaria i corpi gli arrivavano in tutte le condizioni. Quelli morti naturalmente erano i più numerosi ma ce n’erano di tutte le sorte: incidenti stradali, morti sul lavoro o morti ammazzati. Certe volte erano proprio inguardabili. Lui li lavava li pettinava, li ricomponeva in maniera che non si vedessero le ferite e quelle facce stravolte dalla morte riprendevano un aspetto accettabile come si conviene ad uno che si deve presentare all’ultimo appuntamento.

Come gli aveva fatto intendere il responsabile c’era la possibilità di incrementare la paga con delle mance, sia da parte dei parenti sia dalle agenzie funebri quando gli richiedevano un lavoretto veloce e pulito.

I primi tempi aveva avuto delle difficoltà. Si sa che il metabolismo umano non finisce con la morte. Per qualche ora che dipende dalla maniera nella quale uno è deceduto o dalla sua conformazione fisica il corpo continua a vivere. I processi fermentativi sono ancora in atto. Le tensioni dei muscoli si sciolgono quindi succede che il morto si muova e cambi addirittura posizione. In certi casi può emettere dei rumori usuali piuttosto

 

sgradevoli. Quando succedevano queste cose Alvaro correva spaventatissimo dal capo reparto.

“Germano! Il 13 è ancora vivooo”. Il capo reparto gli dava una pacca sulla spalla e sorrideva anticipatamente alla sua battuta, sempre la solita:

“Non ti preoccupare Alvaro! Nessuno è mai uscito vivo da qui dentro”.

Con il tempo e l’abitudine Alvaro ci aveva fatto il callo e quelle cose che all’inizio gli erano sembrate straordinarie adesso gli divennero normali. Mentre percorreva con il carrello le gallerie tetre e buie dei sotterranei dell’ospedale Alvaro non pensava più al carico macabro che trasportava. Imparò come tutti gli altri colleghi che lo avevano preceduto a trattare i morti più come oggetti che come ex esseri umani. Gli capitava di palare con essi delle cose che gli succedevano in famiglia. Quando era arrabbiato per una qualsiasi ragione si sfogava con il morto arrivando anche ad offenderlo. Oppure gli rimproverava i difetti fisici. Se erano troppo grossi o troppo piccoli o se avevano una faccia che non gli piaceva. “Maiale! Guarda come ti sei ingrassato, non entri nemmeno nella cassa!

Un giorno gli arrivò da sopra una morticina molto speciale. Una bambina morta all’improvviso per cause ignote… straordinariamente bella. Era vestita di bianco con un vestitino scollato e le maniche corte a sbuffo. La morte sembrava non aver influito sull’espressione rilassata del volto. Gli occhi dalle lunghe ciglia nere sembravano lì per aprirsi e la bocca schiudersi di nuovo al sorriso. La carnagione era appena imbiancata dal pallore della morte.  Alvaro non riusciva a staccare gli occhi da quel viso, svolgeva le normali incombenze e dopo un minuto tornava a guardarla. Quando la portarono via per la sepoltura Alvaro sentì il cuore contrarsi. Nemmeno la conosceva ma sentiva crescere dentro un dolore sordo e una mancanza acuta che gli fece salire le lacrime come fosse una persona cara. Per tutto il giorno l’immagine di quel viso gli ritornò alla mente ed ogni volta il senso di vuoto che quella bellezza gli aveva lasciato dentro. Poi la realtà si affacciò prepotente a sviarlo dai pensieri ma il ricordo si sarebbe stampato indelebilmente nella sua mente.

Un giorno mentre era di sopra a ritirare un cliente la sua attenzione fu attirata da un alterco che era scoppiato al pronto soccorso. Una signora discuteva animatamente con il medico dell’accettazione. Accanto a lei una carrozzina sulla quale sedeva una signorina silenziosa dal volto molto serio.

“Mia figlia deve partorire! Quindi voi la dovete ricoverare!” Urlava la madre. Il medico cercava di mantenere la calma.

 

 

“Signora, per ricoverarla la dobbiamo visitare, lo vede anche lei che la signorina non ha un filo di pancia come è possibile che debba partorire? Può essere anche possibile che sia di nove mesi come dice lei, a volte accade che il feto non sia particolarmente grande e che la pancia non sia sviluppata ma noi dobbiamo sentirlo!”

“Voi non sentite proprio nulla! La dovete ricoverare!”

Intervenne la sicurezza. La madre non mollava anzi le sue grida aumentavano di tono. “Mia figlia deve partorire e voi la dovete ricoverare!” Ripeteva la signora urlando. Chiamarono il responsabile del reparto maternità. Anche lui cercò di far ragionare la madre ma ogni suo tentativo non faceva che arrabbiare di più la signora. Alla fine il responsabile allargò le mani:

“Va bene, ricoveratela!”

Il giorno dopo mentre prendeva il caffè nell’atrio dell’ospedale insieme a Romolo infermiere del pronto soccorso, Alvaro rivide la signora del giorno prima. Spingeva la carrozzina vuota, a fianco camminava sua figlia. Tutte e due avevano un’espressione soddisfatta.

“Hai visto Alvà’? Sono quelle due che ieri hanno armato il casino al pronto soccorso”. Gli disse Romolo. “Tutto sistemato. La hanno ricoverata. Lei ha partorito e adesso se ne vanno a casa allegre e tranquille”. “E il figlio?”  Ribatté Alvaro. “Ma quale figlio! Era una gravidanza isterica. Il figlio non era che uno sbuffo d’aria puzzolente”. “La madre?” “La madre ha fatto finta che fosse un bambino!”

Gianfranco Liberati

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