Tre giorni di paura

 

TRE GIORNI DI PAURA

La ruspa rimuovendo il boschetto di canne di bambù al limite del mio terreno è andata troppo vicino alla recinzione e l’ha fatta cadere. Debbo rimetterla in piedi. Sto sostituendo i vecchi paletti con altri nuovi. Ne ho già piantati due ma in mezzo c’è un ceppo di canna residuo che termina con uno spuntone ed è sfuggito al ruspista. Debbo rimuoverlo per piantare il terzo palo. Con la zappa attacco il ceppo da un lato, uno due tre colpi. Non viene. Dall’altro? È tenace il maledetto. Con rabbia alzo la zappa più in alto che posso e giù. Gli sono andato troppo vicino. Il dito mignolo della mano destra viene preso tra il manico della zappa e lo spuntone di canna. Benché abbia i guanti il polpastrello del mignolo è maciullato. Mi tolgo il guanto. La carne si irrora di sangue. Guardo desolato la ferita profonda fino all’osso. Cosa faccio adesso? Devo finire il lavoro. Come un imbecille tenendo il dito lontano dal manico della zappa continuo fino a che il terzo paletto non è fissato. Poi con il dito gocciolante di sangue entro in casa. Con un dischetto rimuovi trucco di mia moglie pulisco la ferita. È veramente brutta. Ci metto il disinfettante e la avvolgo in un batuffolo di garza. Mi rendo conto che ci vogliono dei punti di sutura. Vado al Primo Soccorso a Ronciglione. Non c’è molto da aspettare. C’è solo un altro cliente sulla lettiga che è in attesa di essere curato.

La dottoressa P. guarda la mia ferita apparentemente senza scomporsi, normale amministrazione.  Roberto l’infermiere mi domanda:

“Lei è coraggioso? Si è coraggioso!” dice alla dottoressa senza attendere la mia risposta. Lei prepara l’ago con il filo e senza una parola si accinge a ricucirmi. Non è una cosa piacevole ma alla fine resisto al dolore lancinante dell’ago che penetra nella carne. Finita la cucitura l’infermiere versa ancora del disinfettante sulla ferita e con un bel cerotto la avvolge. “Mi raccomando! Le ferite non amano l’acqua. Cerchi di non bagnarsi”.

Sembra tutto finito. Tiro un sospiro di sollievo invece adesso viene il bello.

“Caro signore lei è vaccinato contro il tetano?” Mi domanda Roberto. Naturalmente no. Allora la procedura prevede che adesso noi le facciamo una iniezione di immuno /globuline poiché non c’è nessuna altra maniera per proteggersi dal tetano. Per correttezza la dobbiamo avvertire dei rischi eventuali che corre facendo l’iniezione. Le immuno/globuline sono derivate dal sangue umano quindi se il donatore aveva qualche malattia della quale nemmeno lui era a conoscenza gliela potrebbe trasmettere. Lei è libero di fare l’iniezione o non farla, in questo caso ci firma una liberatoria che ci scagiona se lei dovesse contrarre il tetano. Ci pensi intanto prepariamo la cartella clinica con la profilassi da seguire nei prossimi giorni. Mi ritrovo nella sala d’aspetto con questo dilemma. Sono molto combattuto. Alla fine, decido di non fare l’iniezione. Firmo la liberatoria e torno a casa. Vado subito a cercare su internet. C’è una vasta casistica sull’argomento circa questa terribile infezione. Il bacillo del tetano sta nella terra e in tutti gli oggetti che hanno a che fare con essa, non solo nei chiodi arrugginiti o nel filo spinato come è il credo comune, può stare anche nelle spine e in tutte quelle cose acuminate che si possono trovare in campagna. Se ci si infetta con il bacillo del tetano questo produce nell’organismo una neuro tossina che paralizza il sistema respiratorio e in poco tempo porta alla morte. Il tetano può essere solo prevenuto poiché se si contrae non c’è più possibilità di debellarlo. Naturalmente la probabilità di infettarsi dipende anche dalla profondità della ferita. Nel mio caso questo pericolo è reale. Non è stata una puntura, un graffio o un taglio; è stata una lacerazione profonda… la carne del mignolo era maciullata. Poi l’ho anche sporcata con la terra. Sono tentato di tornare al Primo Soccorso ma adesso è tardi, comunque sono scioccato. Passo una notte agitata. La mattina dopo non è più possibile fare le immuno / globuline, sarebbero inutili. Non ho detto niente a nessuno di questo problema quindi mi trovo a dover fare la vita di sempre e non poter comunicare il disagio che sento dentro. Ho paura che in qualsiasi momento il dito cominci a dolermi più del dovuto, cosa che dimostrerebbe di aver contratto l’infezione. La sera forse perché ho mangiato controvoglia o forse per l’agitazione ho difficoltà a respirare. Subito mi coglie il terrore. Se la cosa peggiora domani sarò morto. L’angoscia mi serra lo stomaco. Nella notte giro per casa come un fantasma. Valuto ogni singolo respiro. Se la difficoltà a respirare permane o va attenuandosi. Mi tornano in mente alcune pagine mirabili del romanzo: L’idiota di Dostojevsky.

Un carcerato racconta al principe Minsky (protagonista del romanzo e presumibilmente egli stesso soggetto del fatto accaduto) la sua drammatica esperienza. Il carcerato era stato condannato a morte per le sue idee liberali e rivoluzionarie. Il giorno dell’esecuzione fu condotto al patibolo per essere fucilato. I condannati erano otto … lui era il quinto. Valutò che soli cinque minuti lo avrebbero separato dalla morte da quando sarebbero iniziate le fucilazioni. Pensò che dei cinque minuti che gli restavano da vivere nemmeno un secondo doveva andare sprecato. Calcolò mentalmente tutte le cose che avrebbe potuto ancora fare in quel lasso di tempo.  I primi due minuti li avrebbe impiegati per salutare i compagni, dir loro una parola di conforto. Se questa sua attenzione avesse potuto lenire la loro disperazione, per lui sarebbe stato un grande sollievo. Gli avrebbe preso le mani e le avrebbe strette fino all’inverosimile e loro si sarebbero sentiti meno soli nell’angoscia estrema dell’ultimo viaggio. Altri due minuti li avrebbe impiegati per mettere ordine in tutti i pensieri che adesso si accalcavano nella sua mente. Avrebbe salutato mentalmente i suoi parenti ed amici e se ce ne fosse stato bisogno li avrebbe perdonati di qualche disaccordo che avesse avuto con loro. Probabilmente lui stesso avrebbe chiesto perdono ai suoi cari per il dolore che la sua condotta sconsiderata aveva causato. L’ultimo minuto lo avrebbe tenuto per se. Sarebbe stato totalmente consapevole di essersi causato la sua stessa prematura morte. Non ci sarebbe stato tempo e modo per recriminare o per assolversi dello sbaglio fatto. Avrebbe accettato la sua sorte con una sconcertante serenità. Nelle orecchie gli sarebbero rimbombati i battiti assordanti del cuore che scandivano il passare del tempo. Gli ultimi secondi li avrebbe spesi in una sorta di macabra curiosità per valutare l’effetto che le pallottole avrebbero prodotto penetrando nel suo corpo e dopo quando tempo la coscienza lo avrebbe abbandonato. L’ultimo secondo sarebbe stato eterno e quando gli sarebbe venuto all’orecchio l’eco degli spari molto tempo ancora sarebbe passato prima che l’oblio definitivo lo cogliesse. Forse in quell’attimo avrebbe realizzato che il tempo non esiste e che la sua estensione varia a seconda della consapevolezza inconscia e profonda di tornare a fondersi con l’universo da cui la vita ci ha sottratto. [1]

Dopo venti minuti la condanna gli venne commutata in dodici anni di carcere. Ma lui non avrebbe mai dimenticato ogni singolo attimo di quei cinque minuti.

Debbo constatare che la mia situazione è ancora peggio di quella del condannato. Se io dovessi contrarre il tetano, nessuna per quanto remota concessione della grazia potrebbe salvarmi.

Ho un sonno frammentato e leggero. La mattina mi sento meglio e tiro un sospiro di sollievo. Alle dieci torno al Primo Soccorso a fare la medicazione. Domando all’infermiere conferma di quanto ho appreso su internet circa il tetano. In maniera secca, diretta, Roberto risponde: “Il tetano? Se lo prendi muori! Quanto dura il pericolo? Quarantotto, settantadue ore”. Deglutisco in silenzio. Ho davanti a me ancora ventiquattro ore di supplizio. Al bar gli amici mi domandano della ferita. Cerco di sorvolare: “Uno spuntone di canna”.

“Dillo a me!” Dice qualcuno. “Una volta anch’io sono andato al Pronto Soccorso per lo stesso incidente. Mi hanno ricucito poi mi hanno fatto l’antitetanica”.

Nota dolente. Io l’antitetanica non l’ho voluta fare… non si sa per quale motivo. Uno stupido pregiudizio, una sottovalutazione del rischio o perché non ho avuto il tempo di realizzare pienamente il pericolo che correvo.

La dottoressa Rausa, il mio medico, mentre compila l’impegnativa per la profilassi, prima mi informa sulla statistica: muoiono cinquanta persone all’anno di tetano, poi mi tranquillizza.

“Non si preoccupi! Secondo me a quest’ora le sarebbe già venuto”.

Purtroppo debbo constatare che di fronte al problema di un altro ognuno si ritira discretamente nella sua roccaforte. Debbo ammettere che anche io probabilmente avrei lo stesso atteggiamento se qualcuno avesse lo stesso problema mio.

“Meno male che non è capitato a me!” penserei.

La mia giornata passa tra le cose da fare e il senso di oppressione e di paura quando il pensiero del tetano mi torna in mente. Come si presenterà. La paralisi colpirà la mano e rapidamente salirà sul braccio? Il respiro diventerà corto e affannoso? Avrò dolore e consapevolezza di quello che mi sta accadendo o la natura benevola mi stordirà facendomi perdere conoscenza? Il dolore maggiore sarà quello di essermene andato senza salutare mia nipote Arianna. Domani quando le diranno: il nonno è morto lei piangerà e le sue lacrime mi bruciano come gocce di piombo fuso. Mi tocco il dito. La ferita non mi duole. La sera ritorna la difficoltà a respirare. Mi siedo sul letto. Esamino ogni singola ipotesi. Le parole della dottoressa Rausa mi danno sollievo. Lei è una persona diretta e non avrebbe esitato a dirmi la verità. Mi ci aggrappo come uno che sta cadendo in un burrone e afferra una radice malferma. Allora penso che la difficoltà a respirare sia dovuta all’antibiotico prescrittomi dalla dottoressa Perelli che può aver disturbato la digestione. Forse è così. Ancora una nottata da incubo. Riesco a prendere sonno verso le cinque. Sogno di essere alle prese con problemi irrisolvibili che però non riesco ad evitare. Quando mi sveglio sono fiducioso. Stamattina scadranno le settantadue ore come termine del contagio. Alle dieci torno all’ospedale a fare la medicazione.

“Hai portato l’impegnativa?” mi domanda Roberto l’infermiere come se questa fosse la cosa più naturale del mondo.

Poi l’ottimismo prevale. Arianna la nostra maestrina è venuta da noi e la sua presenza mi tranquillizza. Poi le dirò del mio problema cercando di essere il più delicato possibile.

 Appena posso mi vaccinerò.

Gianfranco Liberati



[1] Lo spunto sugli ultimi cinque minuti di vita del condannato viene dal romanzo: L’idiota (Dostojevsky) ma io ho rielaborato il succedersi e il contenuto degli avvenimenti secondo la mia sensibilità.

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