Paese che vai...
PAESE CHE VAI…
T. il site manager mi stava aspettando. Ero
arrivato la notte precedente ed ora stavo sistemandomi nell’ufficio del
cantiere. Non avevo fatto in tempo ad arrivare che T. venne a cercarmi. Aveva
in mano una planimetria, quella del geologo. La aprì. Nulla di speciale; la
planimetria mostrava il perimetro del nuovo impianto appena commissionatoci dal
cliente iracheno e una certa quantità di cerchietti numerati disposti
ordinatamente. Mi spiegò che si sarebbe dovuta urgentemente fare la carotatura
del nuovo sito; la macchina carotatrice era già pronta ed io avrei dovuto
individuare sul terreno i punti da carotare e fissarci una targa con il numero
corrispondente. Non era quello il lavoro che ero venuto a svolgere però mi
mostrai disponibile. T. mi spiegò che potevo usare il livello per segnare i punti sul terreno:
“Lo metti in
bolla con queste rotelline. Fissi la stadia in quella specie di ragnatela,
quando il punto è alla distanza voluta lo segni e così via. Fammi questo
piacere. Lo so che sei qui per fare un altro lavoro, ma ho alle calcagna quei benedetti
indiani delle carote che ogni
mezz’ora mi chiedono quando possono cominciare. Io purtroppo ho due noiosissime
riunioni con il cliente; una a Kirkuk
per l’impianto di etilene ed una a Bagdad per il progetto nuovo: quello per il
quale sei venuto a fare i rilievi”.
Mi consegnò la
planimetria mentre era già con un piede sulla limousine che da Baiji, dove
eravamo in quel momento, lo avrebbe portato a Bagdad. Prima di partire mi gridò:
“Ah, se hai bisogno
di aiutanti prendine quanti ne vuoi; abbiamo dieci tailandesi che ci hanno
spedito dall’altro cantiere e non sappiamo ancora cosa fargli fare”.
Le rotelline
erano le viti micrometriche per mettere in bolla il livello, la ragnatela? Il reticolo dello strumento. Tra l’altro nei
dieci secondi di spiegazione non aveva nemmeno tolto il tappo dall’obiettivo.
Trasferire i
punti da carotare dalla planimetria al terreno non era un lavoro difficile,
solo lungo e noioso poiché l’area da coprire era a occhio e croce sei
chilometri quadrati con un centinaio di punti da individuare.
T. site manager di chiarissima fama era il
responsabile della costruzione di tutti i nostri impianti in Iraq. Era
diventato famoso in società per la fuga dall’Iraq di otto anni prima nel
1979/80 quando il paese era entrato in guerra con l’Iran. La guerra aveva trovato
tutti impreparati; anche le stesse autorità irachene che avevano commissionato
i progetti. I nostri tecnici si erano trovati imbottigliati senza alcuna
direttiva; tutte le vie di comunicazione erano presidiate dall’esercito e le
alternative erano: restare o fuggire. Restare comportava tutti i rischi del
caso. (I primi obiettivi dell’aviazione iraniana erano i grossi poli di
estrazione e di raffinazione del petrolio proprio dove si trovavano loro). Decisero
allora di fuggire attraverso il deserto fino in Turchia.
T. allora capo
cantiere non si era perso d’animo. In quattro e quattro otto aveva radunato
tutti i tecnici e gli amministrativi che lavoravano lì e negli altri cantieri di
Kirkuk al nord del paese. Aveva organizzato una carovana di camion e macchine
caricando tutto il necessario per far fronte ad un lungo viaggio: dai
carburanti all’acqua alle cose da mangiare ecc.
Per sicurezza si
erano subito allontanati dagli impianti, possibili bersagli dell’aviazione
nemica, inoltrandosi nel deserto.
Un’ottantina di
persone totalmente inesperte che si trovavano ad affrontare un’avventura a dir
poco complicata. Traversare il deserto senza avere riferimenti non è una
passeggiata. All’epoca non c’erano ancora i telefoni satellitari. Si andava a
naso fidando sulle triangolazioni fatte con la bussola dagli ingegneri civili e
dai geometri. Chi ha avuto la ventura di trovarsi nel deserto sa quanto sia facile
perdersi.
A me era capitato.
Un giorno che ero andato a visitare la torre di Samarra, un sito archeologico a
sud di Tikrit consistente in un enorme cono alto una quindicina di metri, con
una scala scolpita all’intorno che arrivava in cima. (Dicevano si trattasse di
una delle Torri di Babele sparse nel territorio). Al ritorno ebbi la bella idea
di vedere se il deserto era come lo immaginavo. Lasciai la pista in terra
battuta e mi inoltrai all’interno. Il paesaggio era uniforme. La sabbia, gli
arbusti bassi e rinsecchiti a perdita d’occhio. Guidavo a caso per scorgere una
qualsiasi difformità. Niente! Scesi per vedere se gli arbusti ospitassero una
qualsivoglia forma di vita. Nessun animale, un uccello, nemmeno una lucertola. Risalii
in macchina per tornare indietro. Mi diressi verso la pista. Ad occhio e croce
doveva essere da quella parte. Non la trovai, però non doveva essere lontana.
Cominciai a girare con la macchina avanti e indietro con la certezza che da un
momento all’altro avrei visto la terra battuta. Nemmeno per idea. Scomparsa!
Cominciò a prendermi il panico. Calma! Dopo tutto non avrò fatto nemmeno un
chilometro. Mi venne il dubbio se la distanza percorsa fosse proprio un
chilometro o che guidando distrattamente ne avessi fatti molti di più. Mi
fermai. Scesi e cominciai a traguardare con lo sguardo almeno a trovare un
punto di riferimento. Nulla. Cominciai ad andare a piedi in una direzione che
mi sembrava quella giusta; la macchina era lì, quella non sarebbe scomparsa.
Dopo aver fatto cento metri mi sembrò di aver fatto un chilometro. Tornai
indietro, non era quello il metodo. Però… perché preoccuparsi più di tanto, al
cantiere avrebbero notato la mia assenza. Mi sarebbero venuti a cercare,
sapevano dove ero andato. Mi venne lo scrupolo se nel bauletto della macchina
ci fosse dell’acqua. C’erano un paio di guanti da lavoro. Per un riflesso
condizionato, appena fatta questa constatazione mi venne subito sete. Poi il
cervello cominciò a fare delle congetture. Senza acqua in poco tempo mi sarei
disidratato e la pelle avrebbe cominciato a screpolarsi. Mentre una ad una mi
venivano in mente tutte le drammatiche conseguenze alle quali sarei andato
incontro se non mi avessero trovato, non molto lontano vidi una nuvola di
polvere. Un’automobile. Veniva verso di me. Solamente che era dalla parte
opposta dalla quale mi sarei aspettato. Saltai in macchina e gli andai
incontro. Dopo nemmeno duecento metri ritrovai la pista.
Quindi T. si
trovò con tutta quella gente impreparata ad affrontare il deserto. Mantenere i
nervi saldi e la calma u una cosa ardua. T. ebbe il suo gran da fare per non
lasciarsi sfuggire di mano la situazione.
Qualcuno suggerì
di dirigersi a nord verso Kirkuk naturalmente evitando le strade asfaltate. Da
lì partiva la pipeline che traversando
il deserto arrivava in Turchia e poi alla raffineria di Corinto in Grecia. Dall’aereo
guardando la si poteva vedere: due grossi tubi argentati perfettamente dritti
per centinaia di chilometri. L’avrebbero seguita e certamente non si sarebbero
persi. Era una scelta sensata e comunque non ce n’erano altre. Si allontanarono
dal polo industriale quel tanto da evitare un eventuale raid iraniano sugli
impianti. Poi decisero di mandare una spedizione a cercare la pipeline senza avvicinarsi alla
raffineria di Kirkuk da dove partiva; il grosso della carovana li avrebbe
aspettati lì. Partirono con due camion con tutto il necessario e con centinaia
di picchetti con le bandierine colorate usate nei cantieri. Ogni chilometro si
fermavano e piantavano un picchetto facendo attenzione ad infliggerlo
saldamente poiché il vento avrebbe potuto abbatterlo e coprirlo di sabbia. L’idea
fu vincente. Dopo circa quaranta chilometri trovarono la pipeline che traversava il deserto iracheno fino in Turchia. Furono
accolti con un hurrà. Tutta la gente si sentì sollevata. Finalmente avevano una
direzione sicura da seguire. Si tennero comunque a una certa distanza dalle due
grosse tubazioni poiché c’era il rischio che i caccia iraniani venissero a
bombardarle. Quando arrivarono in Turchia la nostra società si era già organizzata per accoglierli e riportarli in
patria. Tutto era finito bene.
La guerra durò
otto anni e finì senza vincitori e vinti. Saddam aveva fallito il suo obiettivo
principale. L’Iraq è un grande paese in maggioranza desertico. La parte più
fertile è a sud in Mesopotamia, alla confluenza dei due grandi fiumi: il Tigri
e l’Eufrate dove novemila anni fa era fiorita la civiltà babilonese. I due
fiumi attraverso un canale naturale chiamato Shatt al Arab si riversano nel
Golfo Persico. Quindi l’Iraq non ha uno sbocco sul mare se non il canale. Lo
Shatt al Arab permette la navigazione solo nella parte centrale più profonda
proprio dove, in base agli accordi internazionali era stato fissato il confine
tra Iran ed Iraq. Una causa della guerra con l’Iran, a parte le mire egemoniche
di Saddam Hussein di dominare tutta l’area, fu proprio questa: appropriarsi
dello Shatt al Arabo isolando di fatto l’Iran. Fallito il tentativo Saddam continuò
con il piano di sviluppo precedente. Le società di ingegneria e di costruzione furono
richiamate. T. avendo acquisito stima e prestigio per aver organizzato senza perdite
la fuga dalla guerra dei nostri tecnici, tornò in Iraq. La nostra società, capofila
dei progetti in atto lo promosse da Capo Cantiere a Site manager. La cosa non gli dispiacque affatto. Quando si sale di
grado il lavoro vero e proprio di esecuzione diminuisce: ci sono i tecnici a
farlo. Aumenta il potere e l’onere della gestione, ma questo non lo preoccupava.
Andava continuamente in giro da Baiji a nord verso Kirkuk e poi giù a Tikrit
(città di Saddam) e infine a Bagdad dove aveva affittato un appartamento. Aveva
sempre il portafoglio gonfio di soldi per affrontare le difficoltà che potevano
nascere per le ragioni più varie. Nell’utilizzo dei soldi bisognava essere
molto cauti. Saddam Houssein era largo di manica ma non ci metteva un attimo a
sbarazzarsi di qualcuno solo se sospettato di non fare i suoi interessi. Il
dittatore aveva un circuito efficiente e minuzioso di informatori sparsi in
tutti i settori di competenza.
Saddam Hussein
era spietato. Andato al potere nel luglio del 1968 con un colpo di stato
militare, aveva subito mostrato la determinazione e la ferocia del suo
carattere. Mi capitò di vedere alla TV locale un episodio drammatico a
testimonianza di quanto detto.
In una sala
enorme erano stati riuniti tutti quelli che secondo il dittatore avevano ordito
un complotto nei suoi confronti. Da un podio sopraelevato; lo sguardo cattivo
iniziò il suo discorso senza preamboli. Io non capivo quello che dicesse ma era
chiaro che non si trattasse di comunicazioni benevole o di auspicio. Vidi i visi dei presenti incresparsi in espressioni
di paura. Gli portarono una lunghissima lista. Il silenzio nella sala era
totale. Da dietro le quinte apparvero d’un tratto decine di militari che in un
attimo bloccarono tutte le uscite. Saddam cominciò a leggere. Al primo nome due
soldati si diressero verso la persona nominata. Lo afferrarono brutalmente
sotto le ascelle e lo trascinarono via. Senza indugiare pronunciò il secondo
nome: Il malcapitato gesticolava e cercava di giustificarsi non capendo il
perché di quell’accusa. Anch’egli fu trascinato via. Saddam continuò
imperterrito a distribuire le sue condanne a morte senza appello. Nessuno cercò
di fuggire. Ognuno di loro attendeva con terrore di leggere il suo nome sulle
labbra di Saddam Hussein ancor prima di sentirlo. Alla fine la sala era quasi
vuota. Trovai quell’episodio così violento da scuotermi profondamente.
Il
mio aiutante, un tailandese dalla corporatura minuscola, saltò giù agilmente
dal pick-up. Con destrezza si caricò i picchetti, il martello, le piastre
numerate e la stadia: sembrava una scultura futurista. Io presi lo strumento. Non
perché volessi profittare del mio ruolo; semplicemente perché il livello era la cosa più delicata.
Dico
tailandese perché me lo avevano detto ma non avrei potuto affermarlo. Portava
una tuta arancione. In testa un passamontagna nero. Gli occhi coperti dagli
occhiali scuri di sicurezza e le mani dai guanti. Nemmeno un centimetro
quadrato di pelle era esposto alla natura. Ci dirigemmo verso il sito da
picchettare.
Le prime due semplici
operazioni che si fanno quando si comincia la costruzione di un nuovo impianto industriale
sono: la recinzione ed il “soil test”.
Con la recinzione si isola il cantiere: ci sono i sentieri percorsi dalla
gente, gli animali domestici e selvatici da tenere lontano, lo stoccaggio dei
materiali da costruzione da proteggere ecc. La recinzione stabilisce che da lì
in avanti le abitudini usuali non sono più permesse. Il soil test (test del terreno) è anch’essa un’operazione importante.
L’area viene perforata con un carotaggio secondo uno schema prestabilito a
seconda della geologia del territorio. Le carote
che si ottengono sono esaminate dal geologo. In base alla qualità degli strati
del sottosuolo si stabilisce la portanza media del terreno. Ciò determina la
profondità ed il volume delle fondazioni che sosterranno le future costruzioni,
apparecchiature e macchine. Un terreno paludoso, avendo scarsa portanza avrà
bisogno di essere palificato mentre in un terreno pietroso sarà sufficiente
scappellare la superficie per appoggiare le fondazioni. È evidente che parlando
di migliaia di metri cubi di calcestruzzo, una corretta analisi del suolo
permette di progettare delle fondazioni adeguate quindi di non sprecare il
cemento e risparmiare un sacco di soldi. All’epoca poi, il calcestruzzo costava
una cifra esorbitante ma Saddam, per raggiungere suoi obiettivi non badava a
spese.
La macchina
carotatrice era già sul posto e il caposquadra attendeva che gli segnassi il
primo punto per iniziare la perforazione. Piazzai lo strumento e seguendo la
planimetria cominciammo il lavoro. Il mio aiutante tailandese non parlava una
parola di inglese, quindi comunicavamo a gesti. Di qua di là con il pollice.
Avanti indietro. Stop con la mano aperta; piantare picchetto con la placca
numerata, imitando il gesto del martello. Si muoveva ubbidiente ad ogni mio
segno come un pupazzetto radio comandato. Una volta per scherzare gli feci anche
il segno verso l’alto. Prima di capire fece vari tentativi, anche quello di
fare dei saltelli poi, mi vide ridere, e si fermò e rise anche lui. Il lavoro
procedeva spedito. Gli indiani della macchina carotatrice, finalmente potevano
lavorare; avevano sorrisi larghi e si sprociuttavano
in inchini ogni volta che ci incrociavamo. Da molti giorni aspettavano di
iniziare il lavoro. T. trovava sempre delle scuse rimandando di continuo
l’inizio della carotatura. Quando mi videro piantare il primo picchetto dovettero
considerarmi una specie di benefattore e si precipitarono a piazzare la
macchina carotatrice.
Io e il mio
aiutante lavoravamo solo la mattina con il fresco. Nel clima secco dell’Iraq,
bisognava bere in continuazione anche se non ne avvertivi lo stimolo altrimenti
ti disidratavi senza accorgertene. (Nella cucina c’era sempre a disposizione
una caraffa con un liquido giallo che sembrava aranciata ed era invece
arricchito con sali minerali).
Per rinfrescarmi
mi fermavo vicino ad una batteria di pompe dove, derivata dal circuito
antincendio c’era una manichetta d’acqua usata per l’emergenza.
Un giorno
vedemmo arrivare a tutta velocità la macchina della sicurezza con i
lampeggiatori accesi, Ce l’avevano proprio con noi e gesticolavano minacciosi
indicando la manichetta aperta. In effetti avrei dovuto pensarci. Aprendo
l’acqua, anche se in piccola quantità, il circuito antincendio va giù di
pressione ed in sala controllo si accende la spia rossa che segnala una
perdita. Mi giustificai per la leggerezza commessa; se ne andarono senza
smettere di gesticolare.
Alle dieci? Pausa
caffè. Lasciavo il mio aiutante al campo e lo passavo a riprendere dopo una mezz’ora.
Lo trovavo accucciato all’ombra. Senza dire una parola, saltava sul pick-up e
via di nuovo a piantar picchetti. Il lavoro durò tre giorni senza che io
riuscissi a vedere la sua faccia. Il suo caposquadra, quando, finita la
picchettatura lo rimandai al gruppo, mi chiese se si era comportato bene, se ero
soddisfatto. Gli risposi di sì, naturalmente approfittai per chiedergli la
ragione del suo camuffamento. Mi spiegò con un sorriso che nel suo paese,
G.Liberati
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