Il tacchino

 

IL TACCHINO

 

Brrrr.. che freddo. Scese le scale stropicciandosi le mani. La luce fioca dell’alba contornava le cose familiari della grande sala. Trovò tentoni l’interruttore ed accese la luce. Un topolino sorpreso andò velocissimo ad infilarsi sotto la credenza. Il camino aveva ancora le braci della sera precedente. Le liberò dalla cenere, ci sistemò dei rametti secchi e ci soffiò sopra. Alcuni secondi dopo il fuoco scoppiettava allegro prendendo vigore. L’odore del caffè si sparse nell’aria insieme al tossicchiare della caffettiera. Intanto si era fatto giorno. Sbirciò alla finestra pulendo con la mano i vetri appannati. Aveva nevicato, non molto, solo una spruzzata, ampie chiazze di verde emergevano dal bianco. Silenziosa come un’ombra era scesa anche la moglie. Con la solita vestaglia rossa, quasi lisa, legata alla vita. Si abbracciarono teneramente, come sempre, augurandosi il buongiorno. Presero il caffè in silenzio, ognuno immerso nell’esercizio mentale di organizzare la giornata. Mancavano due giorni a Natale. Presto sarebbero arrivati i figli e tutti e due pregustavano la gioia dell’avvenimento. I nipoti avrebbero riempito con le loro grida quella casa troppo grande. Si sarebbero scatenati liberando tutta l’energia accumulata in città, seminando lo scompiglio tra le cose e gli animali domestici. Si mise gli stivali ed uscì per governare.

“Non ti scordare il tacchino!” Gli gridò la moglie dalla cucina. Non rispose, il tacchino era già bello che pronto, lo aveva preparato la sera precedente.

I gatti, con le code ritte arruffate, gli si strofinarono miagolando. Posò il piattino con gli avanzi della cena poi si diresse al pollaio, una capanna di legno che aveva costruito lui stesso a prova di animali nocivi. I polli titubavano ad uscire, la neve li sconcertava; gli gettò una manciata di granaglie e subito si misero a beccare freneticamente. Dal porcile gli arrivavano i grugniti impazienti dei maiali. Entrò richiudendosi la porta alle spalle. Avevano rovesciato come sempre il truogolo. Più tardi avrebbe spalato il letame e cambiato la lettiera. Gli versò un secchiello di granoturco e si azzittirono immediatamente. La cavalla si affacciò dalla stanga della tettoia. Le mise una forcata di fieno nella mangiatoia; anche il cane emerse insonnolito dalla paglia dove dormiva con la cavalla scodinzolando e ciondolando la testa. Gli prese il muso tra le mani scuotendoglielo delicatamente. Anche lui invecchiava, il suo pelo fulvo era istoriato da macchie grigie di canizie. Tornò al granaio a prendere il becchime. Il tacchino? Il sacco di tela con dentro il volatile era sparito. Lo aveva appeso con una cordicella ad un chiodo della trave per proteggerlo dai gatti e dai topi. Solo la cordicella sfilacciata pendeva dalla trave. Rimase un attimo sul da farsi. La porta interna, dalla quale si accedeva alla casa, era chiusa e così la porta esterna che aveva le feritoie sulla parte superiore ma da quelle passavano a malapena i gatti. La finestrella sopra al banco da lavoro invece normalmente socchiusa era spalancata. Un paio d’attrezzi erano per terra. Uscì fuori ad ispezionare. Proprio sotto la finestrella, c’era la carriola con sopra una balla di paglia. L’aveva preparata il giorno prima per cambiare la lettiera ai maiali poi, fermatosi a raccattare un uovo deposto in giro dalle galline, se l’era dimenticata. Il ladro aveva profittato di quell’aiuto involontario. Ebbe un gesto di stizza, tuttavia era convinto che chiunque fosse stato a rubare il sacco, non poteva essere andato lontano. Naturalmente scartò l’ipotesi che fosse stato un uomo. Entrò in casa, staccò il fucile dalla rastrelliera. Da molto tempo non andava più a caccia ma il fucile continuava a tenerlo; in campagna non si sa mai, poteva sempre essere utile. Non disse niente alla moglie; indaffarata nella cucina nemmeno se ne avvide. Il cane quando vide il fucile entrò in agitazione uggiolando.

Indugiò se portarlo. Era vecchio e si stancava facilmente, ma tutto sommato gli poteva essere d’aiuto. Gli mise il guinzaglio e lo portò sotto la finestrella.  Subito Reno si mise a braccare poi senza indugio cominciò a seguire l’usta. Il ladro oltre ad essere molto forte, non era facile portare a spasso un sacco con un tacchino che avrà pesato cinque o sei chili, era anche scaltro; aveva camminato dove la neve era più rada; nell’erba umida bisognava essere un esperto per individuarne le orme; tuttavia, passo dopo passo Reno trovò le tracce. Sembravano di un cane ma poteva anche essere un orso o chissà cosa. Impiegarono quasi un’ora a percorrere la piana. Ogni tanto il cane perdeva l’usta per ritrovarla qualche metro più avanti. In prossimità del bosco il terreno si inerpicava nella boscaglia. Si teneva agli arbusti per superare i passi più ripidi. Scivolò due o tre volte imprecando. Anche il ladro era scivolato; le strisciate sul fango erano sempre più numerose. Arrivò in cima, dove il bosco spianava e il sottobosco si diradava per lasciar posto all’alto fusto. Cerri e faggi protendevano i loro rami coperti di bianco. Lì la neve era caduta copiosa. Le tracce divennero più evidenti. Non faceva più fatica a seguirle. Ad un certo punto alle orme si aggiunse una scia; come se il ladro stancatosi, trascinasse il sacco. Percorse ancora una cinquantina di metri e finalmente eccolo lì il sacco; ancora chiuso con la cordicella azzurra. Si sentì sollevato.

Il sacco aveva qualche sfilacciatura ma la tela robusta aveva resistito. Del ladro nessuna traccia. Slegò il cane poi appoggiato il fucile su un tronco d’albero caduto a ridosso di una rupe di tufo si sedette a riprendere fiato. Guardò il magico paesaggio innevato. In lontananza, tra l’intrigo dei rami, si scorgeva il tetto rosso della casa come in un quadro di Van Gogh. Immaginò la moglie intenta a preparare le pietanze. Ebbe un moto di tenerezza per lei. Soffriva in silenzio la lontananza dei figli. Ogni volta che arrivavano, si scatenava in lei una sorta di frenesia culinaria che la induceva a preparare decine di piatti, di conserve, marmellate; le sembravano sempre poche. Quando i figli sarebbero partiti gli avrebbe riempito la macchina di barattoli sorda ad ogni loro protesta. Si accinse a rientrare. Chinandosi per raccattare il sacco, l’occhio gli andò su un pertugio che si apriva dietro al tronco. Alla base del masso, abilmente dissimulata, l’entrata di una tana. Afferrando il moncone di un ramo e tirando con forza fece roteare il tronco. Si chinò sbirciando nel buio. Nessun segno di vita, la tana sembrava disabitata. Mentre si rialzava, percepì un movimento, qualcosa di impercettibile all’interno. Staccò la pila che usava come portachiavi. Il debole fascio di luce penetrò nell’oscurità. A dispetto dell’entrata, la tana era ampia e presentava varie diramazioni. La percorse più volte con la lucetta finché non scorse in fondo qualcosa. Puntò il raggio di luce. Quattro puntini luminosi lo fissavano in silenzio. “Dei cuccioli, di questi tempi; con l’inverno alle porte. Di chi potevano essere?”

Normalmente, gli animali selvatici, hanno i piccoli all’inizio della primavera, quando il cibo è più abbondante.

L’abbaiare furioso del cane lo distolse dai pensieri.  

Una lupa, quattro o cinque metri più in alto ringhiava minacciosa. Il pelo irto, le lunghe zanne scoperte. Reno la fronteggiava avendo tuttavia paura di attaccarla. Con il cuore in gola, cercando di non fare movimenti bruschi afferrò il fucile. Febbrilmente, con le mani che tremavano, cercò due cartucce nella tasca del giubbotto e lo caricò. Lentamente prese la mira. La lupa, come se consapevole del pericolo aveva smesso di ringhiare. Era straordinariamente magra. Le costole sembravano fuoriuscire dalla pelle. Le ossa della spalla sporgevano fin sopra la testa. Le mammelle pendevano smunte, quasi rinsecchite. Teneva le zampe anteriori divaricate per mantenere un equilibrio precario. La testa si abbassava lentamente come fosse di un peso insostenibile. Abbassò il fucile. Chiamò Reno e gli rimise il guinzaglio. Sempre tenendo d’occhio la lupa, fece ruotare di nuovo il tronco davanti alla tana. Povera bestia, chissà da quanto tempo non mangiava. Poi, estratto il coltello, tirò a se il sacco e tagliò la cordicella. Il tacchino rotolò sulla neve. Era straordinariamente grosso. La carne rosa con i segni scuri dei morsi spiccava sulla bianco della neve. Recuperò il sacco, mise in spalla il fucile; lentamente con il cane che ogni tanto eccitato e con il pelo irto cercava di tornare indietro, iniziò la discesa del ritorno. Sul cortile si intravedevano le automobili. I figli erano già arrivati. C’era anche la loro amica inglese con il bambino. Una gioia intensa gli inondò il cuore. Il tacchino? Con tutte le buone cose che la moglie aveva preparato, nessuno ci avrebbe fatto caso.

 

Gianfranco Liberati

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