Il barbierino pakistano

 

IL BARBIERINO PAKISTANO Oggi per me è stata una giornata movimentata nella raffineria della Aramco in Arabia Saudita. Finalmente il cliente (nel nostro ambiente si è soliti chiamare così il committente: quello che appalta i lavori) ha messo a disposizione l’archivio e io dopo avere avuto i permessi necessari sono riuscito a parlare con il responsabile. Gentilmente Hassim, l’archivista, mi ha fornito le copie delle planimetrie e dei layout dell’unità di liquefazione del gas dove dovremmo fare delle modifiche. Ho dovuto anche assistere ad un diverbio acceso tra il nostro responsabile e il suo omonimo arabo. Finalmente è arrivata la benna per scaricare il sale dalla nave. Il cliente non era affatto contento e la ha definita: a toy (un giocattolo). In effetti messa a confronto con quella esistente che doveva essere duplicata, la nostra era abbastanza mingherlina.  Il nostro buyer (compratore) ha interpretato in maniera restrittiva la specifica del progetto. Anche a me è sembrata piccola viste le montagne di sale allineate sotto il nastro trasportatore alte una decina di metri che giornalmente vengono scaricate dalle navi. Vi chiederete cosa c’entra il sale?

Il sale nella sua formula chimica è cloruro di sodio Na Cl, due molecole di sodio e una di cloro. Il cloro è l’elemento base per la produzione della plastica. Si scinde il sale nei due componenti e abbiamo disponibile il cloro. Il cloro combinato con l’etano (gas derivato dal petrolio) dà il dicloretano che messo in un reattore ad alta temperatura si trasforma in PVC che tutti conosciamo per essere il materiale plastico con il quale si fanno piatti e bicchieri.    

Tuttavia adesso sono in città. È già più di un mese che sono qui ad Al Jubail (Arabia Saudita) per fare dei rilievi nella raffineria. Volevo aspettare fino al ritorno in patria tra qualche giorno ma alla fine ho deciso di andare dal barbiere. Prima però passerò dal forno. Hamad il panettiere afgano mi saluta con un inchino. “Uno!“ mi indica con il dito. Annuisco con un cenno del capo. Hamad recupera una palla di pasta in fondo alla cesta, la soppesa, la stende sul piano di marmo. Pochi precisi movimenti con i polpastrelli. La stacca dal piano, la passa abilmente sul dorso delle mani, la fa roteare, in pochi secondi la pasta è diventata un sottile disco grande come una pizza di una quarantina di centimetri di diametro. La adagia su un tampone di stoffa, liso e consunto di un colore grigiastro che una volta era velluto. Aggiusta con cura i lembi in maniera che essa sia perfettamente circolare poi, si avvicina alla bocca del forno, introduce il tampone e paff, con un movimento deciso appiccica la pasta sulla parete. Il forno è un grosso melone cavo di cemento: in basso il bruciatore e in alto un’apertura rotonda di una cinquantina di centimetri di diametro dalla quale si accede alle roventi pareti interne. In pochi secondi il pane imbiondisce.  Hamad sorveglia mentre ha già preparato altri tre o quattro dischi.  Basta un attimo di disattenzione ed il pane si brucia. Le rare volte che succede Hamad scrolla la testa e sciorina una sequela di smadonnamenti che sembrano essere simili ai nostri.  Con un gancio stacca il disco di pizza dalla parete; lo piega in quattro e lo appoggia sulla tavola.

La prima volta che ci andai mi avvolse il pane in un foglio di giornale. Gli feci capire che il giornale non era il più adatto per incartare il pane, allora staccò dalla parete un foglio bianco, lasciando intendere che era un trattamento di favore. Lo ringraziai ma poi, una volta a casa mi accorsi che il foglio era bianco solo da una parte. Era infatti un tabulato formato A3 dei voli della Lufthansa, chissà chi glielo aveva dato? Da allora mi porto io la carta, cosa di cui Hamad non arriva a capacitarsi. In fondo i giornali non sono usati. Il barbiere è proprio lì all’angolo. Hamad me lo indica alzando il capo e socchiudendo gli occhi, per dire che è buono.

La stanza è grande, piena di specchi. Le poltrone rosse in similpelle non nascondono i segni dell’usura. Sottili solchi lasciano vedere in più parti la gommapiuma dell’imbottitura. Ci sono quattro o cinque persone ma non sono clienti. Forse amici del barbiere. Sono pakistani, lo si capisce dal modo di parlare. Rotolano le parole in bocca, velocissimamente e con un forte timbro nasale. Potrebbero anche essere indiani ma si sa che nella rigida organizzazione del lavoro saudita ogni straniero ha una fascia di attività alla quale è associato. I barbieri sono quasi tutti pakistani. Mi fanno accomodare con un inchino. Mi scrutano di sottecchi. Non mi conoscono. Potrei essere saudita e loro hanno un sacro terrore dei sauditi. Quando gli dico che sono italiano il loro sorriso si distende e diventano ciarlieri e gioviali. Il barbierino mi avvolge con il bavaglione fresco di bucato. C’è qualche macchia ma è roba vecchia. Dal contenitore asettico illuminato da una luce azzurrina, sceglie un paio di forbici. Le soppesa, le valuta con l’occhio professionale ed inizia una meticolosa opera di taglio. Prima di continuare è opportuno fare una premessa. Ogni barbiere, indipendentemente dalla abilità, dalla cultura e dalla nazionalità, ha un suo stile. C’è chi inizia dal collo, chi dalla sinistra chi dalla destra. Qualcuno da davanti ma, sono molto rari, inoltre ognuno di loro ha una maniera di fare i capelli che è la sua e non può essere di nessun altro. Un osservatore attento potrebbe, come per un’opera d’arte, riconoscere a prima vista il barbiere che ha eseguito il lavoro. C’è anche un altro fatto che pochi considerano. Con l’anzianità ogni barbiere tende a specializzarsi in una certa tipologia di taglio. Una volta acquisita questa determinazione egli la persegue costantemente e pervicacemente. Il volere del cliente passa in secondo ordine. Quali siano le premesse: una spuntatina, solo un pelino, appena appena, il risultato finale sarà solo e soltanto quello che il barbiere aveva in mente fin da principio. Per fortuna questo barbierino è giovane e sembra non appartenere a quella categoria di barbieri incarognita dall’esperienza. Quando gli dico just a little (una spontatina) fa cenno di aver capito. Maneggia le forbici con perizia ed in poco tempo quello che può definirsi il lato “A” della mia testa, assume un aspetto ordinato; i capelli sono della lunghezza voluta. Il giro dell’orecchio lo preoccupa un po’… non lo convince. Ci ritorna più volte. Che si sia accorto di una leggera asimmetria tra il mio l’orecchio sinistro e quello destro, come mi faceva sempre notare Domenico il mio barbiere? Anche dopo che ha attaccato il lato “B” lo vedo che ha uno sguardo dubbioso. Alla prima occasione infatti, ritorna al lato “A”. Con la punta delle forbici cincischia sui peluzzi e ripassa.  Dagli e ridagli il giro diviene sempre più ampio.  Adesso è perfettamente circolare e di un bianco latte. Finalmente sembra appagato. Si concede una pausa domandandomi qualche cosa. Da dove vengo, dove lavoro ecc. “Italy good” fa alla fine e riprende. In poco tempo anche il collo è ridotto alla ragione. La peluria è scomparsa per lasciar posto ad una delicata sfumatura, che parte fin dalla schiena. Mi ha quasi strozzato per arrivare più giù perché non si capacita che il cuoio capelluto, nel mio caso è ininterrotto fino al dorso. Un buon lavoro per non parlare della lunghezza che è proprio quella che volevo. Mi osserva soddisfatto più volte, con lo sguardo professionale. Da sinistra, da destra, da dietro. Ha l’aria compiaciuta. (Che voglia darmi una martellata).

Prende la spazzola per la pulizia finale. Un momento prima di togliermi il bavaglione lo vedo corrucciarsi. I radi capelli che ho sulla fronte non sembrano della stessa lunghezza degli altri. Riprende le forbici. Zac zac zac! Scomparsi. A questo punto però i superstiti sembrano più lunghi. Vorrei dirgli che non fa niente, sono così pochi; anzi faccio il segno di alzarmi. Interpreta male, come se io non fossi soddisfatto. Riprende gli attrezzi ed in silenzio, inesorabilmente, vengo ripassato di nuovo. Quando finalmente riesco a sfuggirgli, altro che spuntatina. Mi passo una mano sulla testa ormai priva di qualsiasi benché minimo ornamento. Fa ancora un cenno di voler intervenire. Lo fermo deciso. “Stop, stop, dont’ worry about, its enough… thank you” (basta non preoccuparti, va bene così). Mi guardo allo specchio. Bah tutto sommato, non saranno pochi capelli a sminuire il mio appeal, poi lo sapevo che sarebbe finita così. Non dipende dalla nazionalità i barbieri sono simili in tutto il mondo.

Gianfranco Liberati



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