Una telefonata molto sudata

 

UNA TELEFONATA MOLTO SUDATA

L’autista, sordo ai miei richiami alla prudenza, filava a tutta birra sull’autostrada dissestata che da Bagdad, traversando tutto l’Iraq incrociando le città di Tikrit, Samarra, Kirkuk procede verso nord fino a Mosul. Si destreggiava tra frenate, sbandate e sobbalzi evitando buche e pietre. A volte, derapando bruscamente, abbandonava la strada principale, inoltrandosi nel deserto, per poi riprenderla quando il fondo ridiveniva percorribile.  Ogni tanto incontravamo decine di carcasse di pecore che erano state investite dai camion e allora zigzagava tra loro per evitarle. Stanco ed insonnolito, non riuscii ad appisolarmi nemmeno un minuto, occupato com’ero a mantenermi sul sedile. Alle quattro di mattina, dopo un viaggio di quasi trecento chilometri stile Parigi Dakar, arrivammo a Baiji. Facemmo ancora una ventina di chilometri poi abbandonammo l’autostrada per la pista sterrata che conduceva agli impianti. Il capo campo, un filippino tarchiato e sorridente mi attendeva. M’indicò il trayler (una sorta di grossa roulotte formata da due appartamentini contrapposti e separati dai bagni) che sarebbe stato il mio alloggio nella trentina di giorni che sarei dovuto restare lì, e se ne tornò a letto. Verso le dieci vennero a prendermi. Il cantiere distava qualche chilometro dal campo. Il responsabile locale, un ingegnere delle Opere Civili che avevo già conosciuto in ufficio a Roma, alquanto indaffarato mi concesse solo pochi minuti. D’altra parte il mio lavoro non aveva a che fare con il suo. Lui era il capocantiere degli impianti di raffinazione che si stavano costruendo e che erano ad un buono stato di avanzamento. Io dovevo fare i rilievi di interconnecting tra l’impianto esistente e quello nuovo, che sarebbe sorto ad un paio di chilometri da lì.  L’ingegneria del nuovo impianto: Il LAB si stava sviluppando a Parigi, la sede ufficiale della mia società (tecnicamente avrebbe dovuto produrre detersivi ma si diceva che con una piccola unità di alchilazione, brevetto dei tedeschi, l’impianto avrebbe potuto produrre cose meno innocue).

L’ingegnere mi presentò al cliente irakeno poi mi diede dei consigli circa il comportamento che avrei dovuto tenere con la gente del posto, (il paese era nel pieno della guerra con l’Iran), le cose da evitare come fare commenti sulla guerra ed esprimere opinioni personali, non scoprirsi il corpo mentre si facevano i rilievi anche se il caldo era soffocante, la dislocazione dei locali di ristoro, degli uffici, ecc. Prima di scomparire nell’intrigo del cantiere mi disse:

“Certamente avrai bisogno di una macchina, prendi quella, è l’ultima rimasta; ha il carburatore un po’ sporco, ma se si ferma non ti preoccupare, basta aspettare un minuto e riparte; la prossima settimana, appena arrivano te n’assegno una nuova. La macchina in questione era un pick-up della Toyota, quattromila e cinque di cilindrata, una bestia. Partì al primo colpo in una nuvola di polvere. Gli diedi una pulita alla meglio e sfrecciai come un razzo sulla sabbia bollente per raggiungere gli impianti esistenti. In quella landa sconfinata uniforme e giallastra che si perdeva all’orizzonte, unica difformità era il luccichio metallico delle apparecchiature e delle tubazioni degli impianti.  La maggioranza delle unità di raffinazione e di trasformazione brillavano al sole ma ce n’erano altrettante costruite sotto terra, quelle basilari, affinché non potessero essere colpite dai bombardamenti iraniani.

Il lavoro era assai complesso. Alcuni servizi, quali il vapore a bassa a media ed alta pressione, l’aria strumenti ecc. partivano dal locale caldaie, nel cuore del complesso. Portare le linee fino all’impianto nuovo era cosa non facile poiché gli spazi all’interno della centrale del vapore erano risicati e ingombri da una miriade di tubazioni. Poi bisognava traversare un paio di chilometri di deserto e portare le tubazioni di servizio fino al nuovo impianto adagiandole sugli sleeper (più o meno delle traverse di cemento come quelle del treno). Il giovane ingegnere iracheno che mi accompagnava, in teoria avrebbe dovuto conoscere l’impianto esistente a menadito. In realtà spesso, per rispondere alle mie domande sulla dislocazione delle linee di interconnessione, aveva bisogno di consultare i colleghi più anziani; inoltre era anche abbastanza scorbutico, ce l’aveva con l’Italia e non perdeva occasione per punzecchiarmi.

 

Il venerdì era giorno di riposo. Ognuno si dedicava alle proprie attività personali. Si faceva il bucato, l’aria era molto secca e dopo cinque minuti i panni erano asciutti. Si poteva anche cucinare qualcosa nel cucinino del trayler. Oppure ci si riuniva in uno spazio comune per giocare a biliardino, a carte o a scacchi. In quella specie di salone col pavimento di sabbia, gli ingegneri romeni molto ingegnosi, si erano inventati un sistema per fare l’acqua minerale. Avevano costruito un piccolo impianto di refrigerazione adattando a frigorifero un fusto dismesso dell’olio combustibile. Ci avevano messo una serpentina di rame caricata con l’argon preso direttamente dalle bombole delle saldatrici. La avevano collegata ad un compressore che ne garantiva il raffreddamento poi, avevano collegato al fusto un tubicino proveniente direttamente dal serbatoio antincendio dell’anidride carbonica. Il gas insufflato nell’acqua le dava un gradevole frizzantino. Ognuno attingeva a volontà, se il livello si abbassava la valvola di carico immetteva nuova acqua. Un pomeriggio il mio ingegneretto era stato chiamato per una delle solite riunioni con i militari che presidiavano gli impianti e che si occupavano della sicurezza; decisi di approfittarne per andare a telefonare. Per le telefonate private, dato che le linee erano a disposizione dell’esercito, il posto telefonico più vicino era a Baiji. Una trentina di chilometri più a sud. Feci il pieno al pick-up; contrariamente a quanto mi era stato detto, non si era ancora mai fermato. La cittadina di Baiji era semideserta. Solo donne e bambini. Le donne vestite di scuro con il capo coperto. I pochi uomini, in maggioranza anziani e reduci di guerra, erano tutti nella piazza seduti alla loro maniera, con le ginocchia piegate. Alcuni avevano segni evidenti delle ferite riportate in battaglia. Uno aveva perso una gamba e si appoggiava su grucce rudimentali di legno.

Il posto telefonico era in una palazzina parzialmente crollata sotto le bombe di un raid aereo iraniano. Alla stanza con un solo apparecchio telefonico, si accedeva scavalcando le macerie della parte colpita che nessuno aveva rimosso. Unico arredamento: una panca rudimentale sulla quale sedevano rassegnate quattro o cinque persone in paziente attesa di telefonare. Non era raro che la linea fosse requisita dai militari per esigenze di guerra. Macu diceva allora l’operatore allargando le braccia. Bisognava riprovare il giorno dopo sperando d’essere più fortunati. Riuscii a parlare pochi secondi, con l’operatore che mi faceva continuamente cenno di sbrigarmi perché il posto telefonico era un elemento sensibile. La prima bomba se l’era scampata ma la seconda? Feci ancora un giro per il paese con il pick-up. C’era poco da vedere così, mi accinsi a tornare. L’asinello che avevo visto all’arrivo nella cittadina, era ancora lì al bordo della strada. La madre era stata investita da un autobotte, una di quelle guidate dai grossolani autisti turchi. Il somarello lambiva col muso la madre stesa per terra senza vita … ripetutamente. Mi fece una pena e una tenerezza indicibili. Gli autisti turchi avevano sempre una fretta dannata. Facevano con i loro mezzi la spola tra il polo industriale di Kirkuk e Bagdad per rifornire di carburante e di merci la capitale. Se per strada incrociavano degli animali gli davano di tromba rallentando appena, come se gli animali dovessero capire che stavano ingombrando la strada. Ripresi la strada del cantiere. Già s’intravedevano le ciminiere della raffineria quando arrivai sul lungo ponte che traversava un fiume paludoso. Dovetti rallentare quasi a fermarmi poiché c’erano i dossi di cemento. Il cartello all’inizio del ponte, scritto in arabo e in inglese, non lasciava adito ad interpretazioni.

“STOP OVER THE BRIDGE STRICTLY FORBIDEN”

(Divieto assoluto di fermata sul ponte). Sulla sinistra, su una collinetta, c’era la postazione che presidiava il ponte. Una capanna fatta alla buona, contornata da sacchetti di sabbia dai quali spuntava una mitragliatrice. C’erano tre uomini appoggiati alle assi di legno. Superati i dossi spinsi sull’acceleratore riprendendo velocità. Sarà stata la brusca accelerazione o gli scossoni sui dossi. Sta di fatto che il pick-up, gioiello della Toyota proprio a metà del ponte, nemmeno se lo avessi misurato, si fermò.

Subito la mitragliatrice si girò dalla mia parte. Ah, e adesso?

Provai a riavviare il motore ma niente da fare. Un rivolo di sudore freddo mi scese sulla schiena. In quei posti i divieti sono divieti! Non si discutono. Calma mi dissi, niente gesti bruschi. Speriamo che capiscano. Aprii lentamente il finestrino ed agitai la mano indicando il motore.

Non capirono. Vidi i lampi della mitragliatrice; forse sentii anche l’eco degli spari, prima che le pallottole mi mordessero la carne e tutto svanisse nel buio.

Non mi spararono, se no chi lo avrebbe scritto il racconto.

Lentamente scesi dalla macchina. Uno dei soldati venne giù dalla collina con il fucile spianato. Gesticolava arrabbiato. Quello che diceva non lo capivo ma si poteva facilmente intuire. Alzai le mani poi aprii il cofano, finsi di armeggiare con il motore. In realtà stavo solo cercando di prendere tempo. Speravo ardentemente che il minuto di attesa che mi aveva detto l’ingegnere fosse realmente un minuto. Il soldato senza troppi complimenti mi spingeva con il calcio del fucile.

“Get away, get away”(vai via, vai via). Vedevo anche gli altri due sulla collinetta agitarsi e fare cenni con le braccia. Chiusi il cofano. Con la gola secca piena di sabbia, come se lì la sabbia mancasse, mi rimisi alla guida.  Girai la chiave. Mai rumore mi fu più caro del motore che si avviava.

G. Liberati



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