Una coincidenza dolorosa

 UNA COINCIDENZA DOLOROSA

Questo racconto data degli anni cinquanta del secolo scorso. L’episodio finale ricorda una scena del film di Monicelli: Amici miei del 1975. Certe volte le cose si ripetono.

 

Una coincidenza dolorosa

Qualsiasi cosa succedesse alla fine di maggio andavamo al lago. Tutti gli anni così. Ai primi caldi, quando l’aria diventa dolce e trasparente si andava a fare il bagno a Bracciano. Mia madre era severa e non voleva assolutamente che io andassi in giro; inoltre la domenica pomeriggio c’era la dottrina. Don Carlo parroco severissimo e intransigente non ammetteva diserzioni. Se non ci andavi lo diceva subito ai genitori ed erano rimproveri e scapaccioni. Così dovevo ricorrere a degli espedienti. Appena mangiato con la scusa di andare al bagno, aprivo il cassetto del comò, prendevo il costume e lo lanciavo dalla finestra. Sante era sotto in attesa per recuperarlo.

A Bracciano ci andavamo in treno: eravamo piccoli e nessuno aveva un mezzo di trasporto. Solo zi Peppe, più grande di noi, aveva la Vespa ma, al massimo ne portava uno. Dalla stazione ferroviaria scendevamo giù fino all’incrocio; sulla destra la via che portava al cinema. Di fronte la ripida salita con i sanpietrini si inerpicava fino al grigio ed austero castello Orsini. A sinistra la strada in leggera discesa scendeva al lago. Dopo due o trecento metri di falso piano si arrivava al primo tornante con il belvedere. Da lì lo sguardo si apriva sull’immensa distesa celeste del lago. Il panorama era stupendo e ti allargava i polmoni. Sulla sinistra su un cucuzzolo all’ombra di pini secolari, s’intravedeva il convento dei frati di Vicarello. Quasi di fronte, seminascoste dai canneti, brillavano le facciate bianche delle poche case di Trevignano. Più a destra abbarbicata su un promontorio, Anguillara: paese famoso di nobili origini. Lì si erano intrecciate le burrascose vicende delle potenti famiglie papaline. Un po’ più in là, quasi invisibile, la base aerea di Vigna di Valle svelata dalle scie degli idrovolanti che si alzavano in volo. Subito sotto, seminascosta dalla vegetazione la spiaggia di Santo Celso.

La strada asfaltata scendeva fino al lago fra curve a gomito e tornanti. Noi prendevamo la scorciatoia. Su un’apertura del parapetto del belvedere scendeva un sentiero. Rotolavamo giù nella ripida costa aggrappandoci agli arbusti selvatici di spino e di olmo. Dopo qualche centinaio di metri di strapiombi, quasi all’improvviso, il sommesso sciabordio dell’acqua sulla riva sabbiosa. Sulla sinistra verso Trevignano la spiaggia era impraticabile invasa dai rovi, allora andavamo a destra verso il vecchio molo. La costruzione in muratura s’inoltrava sul lago per un centinaio di metri. Il molo ormai in disuso, dalla parte della riva era stato sommerso dalla sterpaglia ed era raggiungibile solo a nuoto. Nessuno di noi sapeva veramente nuotare: c’erano quelli più audaci che si azzardavano nell’acqua alta annaspando scompostamente. Gli altri restavano sulla riva non osando avventurarsi più in là di qualche metro. I più capaci avevano imparato a nuotare nella lega di Solferata. Un bacino artificiale sotto il prato dei frati, ottenuto sbarrando il fosso con delle grosse tavole. I Senzadenari, una famiglia di possidenti agricoli, lo usavano per l’irrigazione dei campi di erba medica. Negli assolati pomeriggi d’estate andavamo numerosi a farci il bagno. Si cominciava dal canaletto dove l’acqua era bassa e poi ci si avventurava nuotando fino alla paratia di tavole della lega. Io avevo imparato a nuotare in colonia. Nei primi anni cinquanta i governi democristiani, seguendo la falsariga del regime fascista organizzavano le cosiddette colonie. Nei mesi estivi centinaia di bambini venivano ospitati nelle strutture governative appositamente allestite. Io il mare lo avevo visto dal finestrino di un pullman durante in una gita con i miei genitori dalle parti di Amalfi. Fu in colonia che lo vidi da vicino e fu lì che feci la prima doccia. A casa la doccia non l’avevamo.  Mia madre, una volta la settimana, scaldava l’acqua sul gas e poi mi lavava nella bagnarola di lamiera zincata.

Ricordo ancora il buon sapore del latte in polvere che ci davano a colazione. Alle undici si faceva il bagno. Eravamo tutti in fremente attesa. L’assistente con le braccia allargate aveva il suo ben daffare per contenerci poi, al suono del fischietto ci precipitavamo come una massa compatta e vociante nell’acqua. Il bagno durava tre quarti d’ora. Di nuovo al suono del fischietto si usciva a malincuore dal mare. In colonia per la prima volta si conoscevano bambini con abitudini e dialetti completamente diversi dai nostri. Si creavano simpatie ed amicizie spontanee in maniera naturale. Dormivamo in camerata su brande a castello. Il compagno sopra di me non lo sopportavo. Frignava di continuo e si puliva il moccolo con il dorso della mano. Poi era tignoso e provocatorio: chiamandomi storpiava il mio nome per provocarmi. Un giorno lo riempii di botte. Andò subito piangendo a lamentarsi con l’assistente. Doveva essere antipatico anche a lei perché me la cavai solo con un rimprovero. L’area del bagno in mare era recintata da una rete. Una volta entrati i acqua l’assistente ci tirava un salvagente. Ci aggrappavamo tutti intorno a raggera. Non sempre c’era posto per tutti e bisognava aspettare che alcuni si stancassero. Una volta staccatomi dalla ciambella mi accorsi con stupore e soddisfazione che riuscivo a stare a galla anche senza afferrarmi a qualcosa. Quando tornammo le madri vennero a prenderci alla stazione. C’era una specie di gara tra loro. Ognuna si riteneva soddisfatta che dopo un mese di colonia il suo bambino avesse acquistato qualche chilo in più degli altri:

“Guarda il mio com’è cresciuto! E allora guardate il mio che muscoli ha messo su!”

La settimana dopo andai subito a sperimentare la mia nuova abilità di nuotatore. Dovetti constatare che l’acqua dolce non era come quella di mare; non ti sorregge e devi fare più fatica per mantenerti a galla. Tuttavia l’esperienza al mare mi aveva fatto perdere la paura istintiva. Quando tornammo al lago affrontai con una certa baldanza la traversata verso il molo. A metà del percorso l’acqua era alta e non si toccava e ci voleva coraggio per coprire la trentina di metri prima della piattaforma che dava accesso alla struttura.

Mario era il più bravo. Aveva perso completamente la paura ed era il primo ad entrare in acqua e raggiungere l’estremità del molo. Una volta sopra si arrampicava su una colonna, forse utilizzata come bitta d’ancoraggio quando la struttura era ancora in servizio e si tuffava. Lo invidiavamo un po’ tutti e nessuno arrivava ad imitarlo. Io ero ormai tra i primi a seguirlo. Una volta però mi avventurai troppo vicino alla costruzione per aggrapparmi alle pietre e riposarmi prima di salire sul molo. Mi sentii afferrare le gambe da qualcosa di vischioso. Ero incappato nelle alghe molto più copiose vicino ai massi di pietra. Sentivo il loro contatto terribile come se delle mani volessero tirarmi giù. Con uno sforzo sovrumano sfuggii alla loro presa. Se avessi ceduto chi mi avrebbe salvato?  Non dissi niente a nessuno per non essere sfottuto dai compagni. Comunque nessuno si era accorto della mia difficoltà.

Stavamo li tutto il pomeriggio entrando e uscendo dall’acqua poi stanchi ci avviavamo sulla via del ritorno. C’era l’erta del sentiero da superare. Faticosamente salivamo soffermandoci a riposare nei tratti meno ripidi. Finalmente scollinavamo sulla piazzola. Da lì la strada verso il centro di Bracciano andava solo leggermente in salita. All’angolo dell’incrocio per la stazione si era piazzato nel frattempo il furgone con la porchetta. Già a una cinquantina di metri se ne sentiva l’odore. Arrivavamo affamati. Il panino costava cento lire. Non sempre le avevamo. A volte dividevamo a metà: in un secondo lo sfilatino era finito. Con i costumi ancora bagnati nelle mani salivamo su verso la ferrovia. Alle cinque e mezza c’era il treno. Bisognava non perderlo poiché era l’unico che avesse la coincidenza con la corriera verso il paese altrimenti bisognava farsela a piedi. Ci sedevamo sfiniti sui sedili di legno del  ciuff ciuff. A quell’ora della domenica i passeggeri erano pochi e avevamo il vagone tutto per noi. Certe volte non avevamo il biglietto e allora avanti e indietro per il treno per evitare il controllore. A Oriolo c’era la coincidenza da Viterbo. Ci affacciavamo allora aspettando di vedere il pennacchio di vapore del treno che arrancava per superare la salita del Pisciariello.

Quel giorno era venuto anche Sandro. Lui non sapeva assolutamente nuotare ed era entrato in acqua solo per farsi lo sciampo. Sandro era un tipo imprevedibile e litigioso. Con il fratello di poco più piccolo formavano una coppia affiatata e non esitavano a menar le mani alla minima provocazione. Finalmente tra cigolii e sbuffi di vapore arrivò la coincidenza. Quando il treno si fermò, affacciato proprio di fronte a noi c’era un giovanotto. Forse per caso gli sguardi si incrociarono. Cominciammo a guardarci. Nessuno abbassava gli occhi in quella sfida silenziosa. Per tutto il tempo della fermata continuammo a fissarci poi, appena il treno si mosse; improvvisamente ed inavvertitamente, Sandro si sollevò sulle punte dei piedi ed allungando il braccio mollò un ceffone violento al giovanotto.  Figuratevi! Il tizio sembrava essere stato morso della tarantola. Si sporse fino quasi a cadere per afferrare Sandro poi cominciò ad andare avanti e indietro nel vagone. Imprecava dimenandosi poi scomparve alla nostra vista. Attimi di panico. Se fosse riuscito a salire sul nostro treno ci avrebbe gonfiato di botte. Per fortuna sentimmo lo scossone della partenza. Anche se fosse sceso al volo dal treno ormai non poteva più raggiungerci.

“Lo conoscevi?” Chiesi a Sandro. “No, mai visto”. Mi rispose.

Gianfranco Liberati



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